ARMAND (2024) di Halfdan Ullmann Tøndel
L’elefante nella stanza
Negli ultimi anni il cinema si è interrogato sui meccanismi interni del mondo scolastico: in queste microcomunità film come La sala professori (İlker Çatak, 2023), La classe (Laurent Cantet, 2008, regista incontrato per il suo film successivo Foxfire; ragazze cattive) e Elephant (Gus Van Sant 2003) si sono imposti a livello critico, senza dimenticare l’iconico L’attimo fuggente (Peter Weir 1989) e Polytechnique (Denise Villeneuve 2009).
Armand vincitore della Caméra d'or (miglior opera prima) all’ultimo festival di Cannes si inserisce a pieno titolo in quest’universo complesso con un’impronta stilistica ben definita che si rifà a Luis Buñuel e soprattutto ai suoi illustri nonni Ingmar Bergman e Liv Ullman di cui sentiamo in modo chiaro l’influenza.
Il sistema pedagogico scandinavo a oggi è considerato uno dei più avanzati al mondo e proprio qui nasce l’elefante nella stanza (come ci ricorda Gus Van Sant): una presunta violenza a sfondo sessuale di un bambino di sei anni (Armand) su un suo coetaneo.
Il termine presunta è centrale nel nostro percorso: in Armand la ricerca della verità è la causa scatenante dei processi psicologici dei personaggi coinvolti in quanto il corpo docente, emblema di un’inappuntabile onestà intellettuale, mira a insabbiare l’accaduto mentre una coppia responsabile e obiettiva cova sentimenti di vendetta e la madre di Armand ci appare carica di sensi di colpa nei confronti del proprio figlio da dover faticosamente elaborare.
Dall’incontro/scontro di tali processi psicologici ci accorgiamo di come il concetto di colpa non solo si impone come emblema del cinema scandinavo d’autore (gli esempi sono numerosi anche all’interno della filmografia di Ingmar Bergman); se a tale vexata quaestio affianchiamo il fulcro della messa in scena del film (girato totalmente all’interno della scuola in questione eccezion fatta per il prologo e il finale) possiamo affermare che Armand parta dall’universo scolastico per parlare ad ampio raggio della stessa società scandinava in cui coesistono eccellenza e il più alto tasso di suicidi in Europa rendendo tali paesi l’esempio di una contraddizione irrisolta.
Armand è stato definito un film trappola: nonostante tale affermazione sia fondata per i motivi elencati è altrettanto vero che la sua maggiore forza risiede in quel fascino capace di far emergere il mostro che anima queste terre proprio come la bellezza lucente di Justine in Melancholia (Lars Von Trier 2011) si infrange contro uno stato depressivo inelaborabile. L’immagine in Armand riesce a inserirsi a pieno titolo in quest’uso psicoanalitico del cinema senza tuttavia risultare coraggiosa in quanto ripercorre strade tracciate dai maestri del cinema nordico … non i già citati Bergman o Von Trier.
In Armand inoltre la violenza narrata non ha bisogno dell’osceno, punto sicuramente a favore in quanto registra una riflessione sull’etica dell’immagine attraversando un lungo, estenuante dialogo tra dirigenti e genitori. Se è un’operazione voluta dallo stesso Tøndel è un ulteriore punto a favore in quanto mira ad attirare le facoltà immaginative dello spettatore relegandolo in un ruolo attivo rispetto alle vicende … personalmente ritengo sia l’idea vincente.
Inoltre Armand lavora sulla forza simbolica degli elementi fondanti del cinema come la fotografia, il montaggio e la messa a fuoco con scelte stilistiche proprie del Dogma 95: tutto ruota intorno al potere della realtà ultima dell’immagine capace di guidare lo spettatore attraverso il testo e i suoi risvolti psicologici.
Tuttavia se l’esperienza del Dogma 95 si rivelò fallimentare proprio per la natura multidisciplinare del cinema rendendo quasi retorico il desiderio di cercarne la verità ultima con la maggiore naturalità possibile della luce, del montaggio ecc., Armand ci appare come un’opera figlia delle terre nordiche, che mette sul piatto il potenziale del giovane regista norvegese ma che ha bisogno di guardare all’intera scena cinematografica mondiale per ampliare la portata del proprio messaggio riuscendo così a scrollarsi di dosso l’ingombrante eredità di un maestro come Ingmar Bergman.
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Claudio Suriani Filmmaker